I
racconti del mare: Le secche false
di Giorgio A. Di Iorio
Degli
agricoltori amici di mio zio, ci invitarono un giorno a passare un
po' di tempo in campagna. Il fratello di mia madre, che aveva una
grande passione per la caccia, non se lo fece ripetere due volte;
riempì una borsa di cartucce, mise il fucile in un'altra borsa
e, insieme a me, saltò sulla vettura dove un contadino ci stava
aspettando.
Era una bella sera di settembre. Il sole si nascondeva dietro ai campi
lanciando gli ultimi raggi vivificatori nella pianura dove pascolavano
alcuni greggi di pecore. Una dolcezza, una calma, una tranquillità
indescrivibile regnava tutt'intorno. Io provavo la stessa sensazione
che si prova stando in alto mare quando tramonta il sole, e non pronunciavo
parola. Anche i miei compagni stavano in silenzio.
"Andremo per la scorciatoia" disse il contadino, rompendo
l'incanto, "se no ci fa notte per la strada, e non c'è
luna".
Appena imboccammo la viottola, mi parve che il diavolo avesse preso
il posto del cavallo. La fragile vettura correva a forte andatura
e si muoveva come una barca quando prende la maretta di fianco; io
mi aggrappavo ai sostegni per non cadere per terra a faccia in giù.
Arrivammo alla fattoria: un mondo nuovo per me. I padroni ci accolsero
con una familiarità che non avrei mai immaginato. Ci diedero
una stanzetta con due buoni letti, e lì passammo gran parte
della notte.
Però, senza che io riuscissi a spiegarmelo, la mattina non
mi potetti alzare. Mi dolevano tutte le ossa, la fronte e le tempie
scottavano; non potevo tenere gli occhi aperti: la luce mi dava fastidio.
Mio zio, dopo avermi osservato un poco, parlò con la padrona
di casa e se ne andò per non sciupare la giornata che gli prometteva
un'ottima caccia.
Da quel momento tutta la famiglia del fattore si mise al mio servizio.
La padrona preparò vari infusi che mi fece bere nonostante
la mia resistenza; i figli maschi, seduti sul letto, mi offrivano
i loro servigi sorridendo; mentre una ragazza si affacciava ogni tanto
alla porta semiaperta e subito spariva. Io avrei voluto trovarmi mille
miglia lontano. Mi sentivo molto malato e ne provavo vergogna.
Ammalarsi in casa di estranei!
Cose da pazzi! Come se uno lo facesse apposta!
Ma senza sapere a cosa attribuirlo, verso mezzogiorno cominciai a
sentirmi molto meglio. La febbre era calata e avvertivo un pochino
d'appetito.
Volli alzarmi, ma la padrona si oppose. Tutto il giorno mi costrinse
a stare a letto a prendere i suoi infusi e senza mangiare.
A tarda sera rientrò mio zio carico di ogni tipo di uccelli,
contentissimo; venne nella stanza, mi guardò e vedendomi sveglio:
"Francesco" - mi disse -, "non conviene andarcene in
questo stato; qui hai molte attenzioni, quando ti sentirai bene, partiremo.
Che vogliamo farci! Son cose che succedono ai vivi!"
Non so se mio zio era sincero in quel momento, perché mi venne
il sospetto che tutte quelle belle parole le dicesse per prolungare
un po' di più il soggiorno in campagna dove si trovava tanto
a suo agio col fucile.
Non risposi nulla.
Il giorno seguente mio zio se ne andò di nuovo a caccia. Io,
quando udii i rumori che rivelavano che tutta la famiglia era in piedi,
mi alzai, mi vestii tranquillamente e poi uscii nel cortile.
"Per l'amor di Dio, non uscite così presto!" gridò
la padrona -. "Vi può far male! Fermatevi, rientrate in
casa, ché non avete bisogno di uscire!"
E per forza mi fece rientrare.
Verso mezzogiorno mi misi a tavola insieme ai figli del fattore e
mangiai con buon appetito. Tutti, maschi e femmine, erano della mia
stessa età: da quindici a vent'anni. Incominciammo a parlare
del più e del meno e alla fine arrivammo al mare.
"Sicché tu vai a pescare a mare". - disse uno, come
se fosse una cosa dell'altro mondo - "Non hai paura?".
"Io non ci andrei per tutto l'oro del mondo!" - esclamò
un altro - "E' così brutto!".
"A volte sentiamo l'eco del suo mugghiare fin da qui!" -
aggiunse una delle ragazze con gli occhi che le brillavano di innocenza.
"Sì" - replicò un altro - "quando c'è
burrasca il fragore ci fa rabbrividire. Pensiamo a quelli che stanno
in mezzo a quei frangenti e ... non possiamo capacitarci. Bisogna
avere un bel coraggio! Che brutta cosa è il mare!".
"Tu conosci la storia di Biricuyà, la donna cacicco?"
chiese la ragazza con una espressione misteriosa del volto.
Io scrollai le spalle. Non ricordavo di aver sentito mai alcuna storia
di indios.
"Tuo zio la sa" - soggiunse la ragazza - "E' molto
bella. Parla anche del mare." - Poi, rivolgendosi ai suoi fratelli:
"Stasera ce la faremo raccontare. Non è vero?".
Infatti, durante la cena non si parlò d'altro che del mare
e della sua volubilità. Mio zio, che io non credevo capace
di narrare racconti, pregato insistentemente dai figli del fattore,
raccontò un fatto che mi rimase profondamente impresso.
"Molti anni fa" - disse "nel luogo situato tra Chapadmalal
e Punta Mogotes il terreno non era liscio e dolcemente ondulato come
ora. Quasi sulla costa era scosceso, con rocce e rupi sospese a picco
sull'oceano. Nello spazio tra due colline che formavano angolo, di
spalle al mare, sorgeva un antico villaggio di indios, l'occupazione
dei quali era pascolare capre e pecore. Questi indigeni, uomini lavoratori
e pacifici, stimavano molto il cacicco che li guidava. All'epoca di
questa storia, il capo tribù, essendo molto vecchio, aveva
delegato il comando a una sua figlia, chiamata Biricuyà, e
tutti i sudditi erano incantati. Biricuyà, donna dalle doti
eccezionali, s'era sposata molto giovane. La sua vita coniugale era
durata però molto poco; dopo alcuni anni, il marito, per ricuperare
una pecora, cadde da un dirupo e non si seppe più niente di
lui. Da allora la donna capo tribù visse solo per sua figlia.
Florindia, così si chiamava la piccola, cresceva robusta e
bella. La madre non la lasciava sola un momento. Le faceva il bagno,
la pettinava, la profumava, la vestiva come una bambola e poi la portava
in giro per il villaggio.
Quando Florindia compì i quindici anni la sua bellezza era
semplicemente accecante. I giovani, vedendola così bella, così
amabile, così graziosamente vestita, rimanevano muti per l'emozione
e non osavano dichiararle il loro amore. Tutti la veneravano come
se fosse una dea. E la madre non smetteva mai di farla bella; era
il suo orgoglio, la sua speranza, la sua stessa vita.
Un giorno la figlia di Biricuyà volle camminare un po' più
del solito; madre e figlia arrivarono fino a un ruscelletto rumoroso
e limpido che attraversava la campagna verde.
La bella Florindia come una farfalla cominciò a correre qua
e là sotto i raggi dorati del sole. Ad un tratto lanciò
un grido: in uno specchio di acqua tranquilla l'indianina aveva visto
un volto sorridente di ragazzo che la guardava e le faceva dei segni.
Se la madre non l'avesse sostenuta, certamente sarebbe caduta.
Non andarono più al ruscello. Però il cuore di Florindia
si riempì di un palpitare nuovo.
- Dove corre il ruscello? - domandava alla madre.
- Verso il mare, figlia -.
- Cos'è il mare? -.
E Biricuyà, che non sapeva cos'era, ma ne aveva una paura terribile,
condusse la figlia in cima ad una collina perché contemplasse
l'impressionante distesa azzurra.
Florindia rimase estasiata. Al vedere l'immensità del mare
stette un pezzo muta, immobile, con le pupille dilatate, come se volesse
assorbire quello spettacolo misterioso e penetrarlo fino in fondo.
- Che ci sarà dall'altra parte, mamma? -.
Biricuyà aveva sentito dire che esistevano altre terre e altri
uomini; ma non osò ripeterlo. Un vago presagio le faceva presentire
che nulla di buono sarebbe capitato a sua figlia, se le avesse raccontato
quelle storie.
- Che bello sarebbe arrivare fin lì! - continuò l'indianina,
indicando la linea dell'orizzonte.
In quell'istante lo stesso volto che aveva visto nel ruscello apparve
nel mare, e per la seconda volta Florindia fu sul punto di cadere.
Non andarono più neanche a vedere il mare. La donna capo tribù
comprese che sua figlia soffriva di uno strano male. Chi poteva essere
quel giovane che le appariva ogni momento? Si rinchiuse in casa con
lei e cercò la maniera di guarirla.
Passarono i mesi. Nessun rimedio aveva dato risultato positivo. Il
nonno allora suggerì che forse la nipote sarebbe guarita se
si fosse sposata. Si presentarono alla ragazza i giovani migliori,
ma Florindia non ne volle nessuno. Il viso che le aveva sorriso dal
fondo del ruscello, lo stesso che aveva visto nel mare, non si trovava
tra loro.
Passarono gli anni. La madre, il nonno, tutti i parenti intorno al
letto; consumavano i loro giorni in una profonda angoscia. Erano già
molte le notti trascorse a vegliare, quando Biricuyà fu vinta
dal sonno.
Sognò. Le pareva di stare in cima ad una collina, in un bel
palazzo che dominava il cielo e il mare. Ella non voleva guardare,
aspettava qualcuno, però non voleva che arrivasse. Voleva andarsene
ma non poteva. All'improvviso notò qualcosa sopra l'orizzonte.
Un'ansia terribile si impossessò di lei. Era una vola che si
avvicinava rapidamente. Come una pazza, pallida, tremante, aprì
la porta e corse giù per le scale. Volò alla spiaggia
e trovò approdato lo strano vascello. Sul ponte non c'era nessuno.
All'improvviso si aprì una porta: attraverso una scala d'oro,
in groppa a un cavallo bianco, riccamente vestito, scese un bel giovane.
Scortato dal suo seguito di cavalieri, attraversò la spiaggia
e prese la via del palazzo. Ella non poteva articolar parola: di lontano,
impotente, scarmigliata, seguiva il corteo. Arrivato al portone del
palazzo, il forestiero scese da cavallo, prese un cofanetto e, solo,
salì le scale. Biricuyà passò inosservata attraverso
i cavalieri e seguì il giovane, passo passo, fuori di sé,
tremando. Le porte si aprirono come per incanto; si aprì anche
la stanza di Florindia che non era più malata. Bella come non
mai, abbigliata coi suoi vestiti migliori, sorrideva, parlava: - Sei
tu? Benvenuto -. Lo straniero le fece un inchino, poi, risoluto, avanzò
verso di lei; aprì lo scrigno, prese un diadema e lo posò
sulle chiome dorate della giovane. Quindi i due si confusero in un
abbraccio d'amore. Così, abbracciati, scivolarono verso il
portone. Il cavaliere montò in groppa al corsiero e, a gran
galoppo, partì con Florindia.
Biricuyà guardava tutto piena di spavento, gelata, muta; poi
quando vide che la sua amata figlia veniva portata via, con uno sforzo
sovrumano, lanciò un grido d'allarme:
- La portano via! La portano via! Aiuto! Aiuto! Me la stanno rubando!
-
Si svegliò. Diede uno sguardo in giro e vide che tutti piangevano.
Come spinta da una molla, si slanciò su sua figlia, stringendola
fortemente al petto. Ancora non s'era resa conto che era morta.
Appena se ne accorse lanciò un ruggito di fiera ferita e corse
alla spiaggia. Non c'era niente. Neppure un'orma. Salì sul
monte, scrutò il mare, ma non vide il vascello.
-Me l'hanno portata via! Me l'hanno portata via! - cominciò
a gridare sconsolatamente. - Florindia! Figlia mia! Dove sei? -
E l'eco delle montagne ripetè le sue parole:
- Florindiaaa! Figlia mia! Dove sei? -
Passò il tempo. Nessuno poteva calmare il dolore di Biricuyà.
Se ne stava continuamente in cima a un dirupo, pallida, smpagrita,
scarmigliata, in attesa di vedere una barca che le riportasse il suo
bene perduto.
Un giorno tutta la popolazione restò pietrificata. Una nave
solcava il mare da nord a sud, a vele spiegate. Per ordine di Biricuyà
fu acceso un gran fuoco, però la nave, senza cambiare rotta,
scomparve. La madre addolorata perse allora ogni controllo e comandò
che si costruisse una scogliera di pietra per trattenere la nave se
fosse passata di nuovo. I sudditi, spaventati per lo strano avvenimento,
nonostante avessero sotterrato essi stessi il corpo esanime della
bella fanciulla, abbandonarono le pecore e si dedicarono alla gigantesca
costruzione.
La scogliera avanzava nel mare con rapidità: in poco tempo
gli uomini s'erano spinti innanzi per varie miglia e continuavano
l'opera con rinnovato sforzo.
Altri elieri solcarono l'oceano e tutti, vedendo la scogliera, cambiavano
rotta per evitarla. Gli indios si accorsero del loro fallimento e
smisero di lavorare. Presero le poche cose che avevano nel villaggio
e si sparpagliarono per il deserto.
Solo Biricuyà rimase. Tutti i giorni percorreva la spiaggia,
la costa dirupata, la scogliera, scrutando con lo sguardo il mare.
L'eco della sua voce non le restituì sua figlia. Una sirena,
commossa per il dolore dell'india, lasciò la sua tranquilla
dimora e nuotò fino alla nostra costa:
-Biricuyà - le disse, - sorella mia, asciuga le tue lacrime,
vienitene con me, ti condurrò dove sta Florindia- .
Obbedì Biricuyà, però prima volle lasciare un
segno indelebile del suo odio contro coloro che si arrischiano a solcare
il mare vicino alle nostre coste. - Non rapiranno più nessuno!
Non se ne andranno più impunemente! - gridò e, aiutata
dalla sirena scagliò le pietre della scogliera che sporgevano
in superficie per tutti i dintorni di Punta Pogotes. Compiuta l'opera,
si inabissò soddisfatta nei gorghi marini.
Da allora moltissime navi hanno terminato lì la loro esistenza.
I sopravvissuti narrano che proprio quando il mare è più
calmo e quando meno se lo aspettano, una nebbia densa si leva dall'orizzonte
e li avvolge. Nell'oscurità arriva fino a loro un patetico
lamento, un canto indio tenero e ammaliatore che li fa rabbrividire.
All'improvviso un rumore di onde che si frangono si unisce alla strana
voce e tutto forma una macabra sinfonia. Immediatamente cambiano rotta,
però ... niente! In tutte le direzioni verso le quali mettono
la prua sentono ruggire le onde. Pieni di spavento fermano le machine
e gettano l'àncora. Invano! La nave cammina sempre. Alla fine,
dopo un terribile sconquasso, i fianchi della nave si squarciano e
il mare se la inghiotte. Allora la nebbia svanisce e tutto torna tranquillo
come prima".
Il racconto di mio zio impressionò tanta la famiglia del fattore
che per molti giorni non si parlò d'altro in quella casa che
di Biricuyà e di Florindia.
I figli, maschi e femmine, volevano con insistenza che rimanessimo
per sempre con loro e dovemmo fare grandi sforzi per sottrarci alle
loro preghiere.
"Perché andare rischiando così la vita sul mare"
dicevano, "se la terra è tanto ricca e tanto vasta?"
Però qual è il marinaio capace di stare anche un sol
giorno lontano dal mare senza soffrire la nostalgia travolgente delle
onde?
Tornammo a casa carichi dei migliori frutti della terra.
Per quanto mi riguarda, da allora ho cercato di accertare che c'era
di vero nella leggenda di mio zio. Posso garantire che quel buon uomo
non raccontava affatto cose immaginarie. La scogliera di Biricuyà
esiste davvero e va dal prolungamento di Punta Mogotes per tre miglia
verso il largo. L'ultima sporgenza è costiyuita dalla Secca
di Fuori , la parte più alta della quale è di dieci
bracciate di profondità con marea regolare. Per molti anni
è stata la secca obbligata per la pesca delle alici e dei pesci
limone. Mezzo miglio più vicino alla costa, sempre nella stessa
direzione, si trova un'altra secca chiamata di Mezzo, e la sua parte
più alta si trova più o meno allo stesso livello della
Secca di Fuori. Anche nei suoi dintorni si pescano alici e pesci limone.
Più vicino alla costa si alza la Secca di Terra, che con bassa
marea ha la cresta più alta a tre bracciate dalla superficie.
Nei suoi dintorni abbondano le orate, i palombi e le alici nei giorni
di mare molto calmo.
Le Secche False, - così, al plurale, perché non si sa
mai dove, né come, né quando compaiono -, con la bassa
marea si vedono dalla costa, a volte coperte di foche. E sono false
davvero. Da che ricordo io hanno inghiottito più di un battello
da pesca. Senza parlare delle grandi navi: nei loro paraggi si vedono
ancora i relitti delle navi da carico Mendoza, Patagòn e altre
delle quali non ricordo il nome. E certamente quelle non sono le ultime,
perché l'influsso malefico di Biricuyà non è
terminato ancora e per astuto che sia il capitano, la maledizione
dell'india cadrà come un fulmine sugl'incauti che si avvicineranno
troppo alle coste marplatensi.
(da Jorge A. Di Iorio, Desde la barca mia. Memorias
de un pescador, Buenos Aires, 1951 - traduzione dallo spagnolo
di Giorgio Vuoso).
GIORGIO A. DI IORIO nacque a Testaccio (Isola d'Ischia)
il 5/12/1917. Frequentò le scuole elementari e la scuola di
avviamento professionale; poi, quando avrebbe dovuto iscriversi all'Istituto
Nautico di Procida, andò a raggiungere il padre già
emigrato in Argentina (il resto della famiglia li avrebbe seguiti
qualche anno dopo). Qui, a Mar del Plata, fece il pescatore, uno dei
tanti che dall'isola d'Ischia espatriarono esportando, insieme al
loro coraggio ed alla loro operosità, questa attività
allora quasi sconosciuta in quel paese. Nonostante il lavoro fosse
duro e impegnativo, non perse mai la passione (che aveva già
rivelato all'isola d'Ischia) per la lettura e lo scrivere. Lesse Dante,
Ariosto, Manzoni, Daudet, Lamartine e altri autori italiani e stranieri
e scrisse su vari giornali e riviste argentine della pesca e dei pescatori,
facendo conoscere l'attività, la vita e l'anima di questi uomini
quasi tutti di provenienza italiana. Questi suoi scritti raccolse
poi in un libro che pubblicò nel 1951 a Buenos Aires col titolo
"Desde la barca mia ... Memorias de un pescador ". Morì
a Mar del Plata il 25/8/1966.
Di lui ha scritto il critico e romanziere argentino Hugo Wart: "Ho
letto i suoi racconti con simpatia perché trattano temi che
mi hanno entusiasmato fin da bambino. Poi la mia simpatia è
aumentata unita a un vivo interesse suscitato dalle sue narrazioni
semplici e coinvolgenti e finalmente ho finito con l'ammirare le sue
grandi qualità di scrittore del mare.
Possiede Di Iorio il gran dono di creare tipi, condurre azioni e intrecciare
dialoghi veri come la realtà stessa. Ha particolare capacità
nella presentazione dei personaggi e nel ritratto; e delicatezza e
poesia nei paesaggi ".
