Anno III n. 1/1980

ISCHIA., LA POESIA CLASSICA E IL MITO DI TIFEO

di Raffaele Castagna

Non freme così 'l mar quando s'adira
non lnàrime allor che Tifeo piagne
(Petrarca)

L'isola d'ischia doveva suscitare, nella notte dei tempi, sentimenti di stupore, di paura, di inospitalità: frequentemente si verificavano sconvolgimenti della terra, eruzioni vulcaniche, lave; gente selvaggia e turpe vi aveva stabilito la propria dimora, vivendo di rapine ai danni di coloro che, ignari del pericolo, cercavano approdo nelle quiete insenature.
Favola e mitologia videro riflessi in queste immagini l'intervento di un essere soprannaturale e principalmente l'azione punitrice di Zeus verso il drago Tifeo, simbolo del fuoco, e gli scellerati Cercopi, definiti dagli antichi narratori «bugiardi, ingannatori, mariuoli, ladroni eterni».
La relativa materia ebbe sì vasta risonanza da essere accolta nella tradizione classica ed essere trasformata, talora, in una componente essenziale della poesia epica.
« Pitecusa » (antica denominazione, usata dai Greci e dai Latini) viene spesso spiegato etimologicamente come «terra abitata dai Circopi» che, avendo tentato di usare le loro male arti anche contro Giove, furono trasformati in «simie» (gr. pitecos = scimmia): tale ipotesi riporta Strabone nella Geografia e gli fa eco Ovidio nelle Metamorfosi («.. Pythaecusas, habitantum nomine dictas»: ... così chiamata dal nome degli abitatori). Pausania «periegeta» indica Eracle come persecutore dei Cercopi: li tramutò in scimmie e li mandò a popolare Pitecusa, «l'isola delle scimmie», cioè Ischia; nell'italia meridionale si rappresentava, in una farsa, ed è rimasto anche raffigurato su un vaso, Eracle che porta al re Euristeo i Cercopi come scimmie, in una doppia gabbia, e si diverte a loro spese.
Questa terra è indicata con varie perifrasi, in cui è costante il riferimento al mostro dalle cento bocche, seppellito sotto una roccia che, secondo una diffusa interpretazione, è appunto Inàrime (Ischia); ricorrente è l'uso di paragonare fragori intensi e continui con i fremiti e i sussulti cui il suolo dell'isola andava soggetto.
La denominazione «Inàrime » si forma sulla scorta di un passo dell'Iliade (libro II, vv. 781/3), nel quale Omero chiama ARIMA (ein Arimois = nel paese degli Arimi) la «camera da letto di Tifeo» ed in ciò precisa di seguire le voci correnti. Le schiere dei guerrieri si mettono in movimento e sembrano un mar di «foco inondator che tutta divorasse la terra», e al calpestio:

. . il suol s'udia rimbombar.
Come quando il fuiminante
irato Giove Inàrime fiagella,
duro letto a Tifeo, siccome è grido;
così dei passi al suon gemea la terra
.

La similitudine dell'adirato mostro che si scuote bruscamente sul suo letto di fuoco e provoca grande ballottamento della terra circostante è ripresa da Francesco Petrarca nel Trionfo della Pudicizia (vv. 112/3):

Non freme così 'l mar quando s'adira
non Inàrime allor che Tifeo piagne.

Altra tesi segue Dante Alighieri, per il quale la caligine che vela la Sicilia non la manda fuori dall'Etna il gigante Tifeo, che vi fu sepolto dopo essere stato abbattuto da Giove, ma è dovuta alle emanazioni sulfuree del vulcano (Paradiso, canto 80 v. 70):

Non per Tifeo ma per nascente solfo.

Eppure Virgilio si era attenuto alla versione omerica (Eneide, libro IX, vv. 715/6): cade Bizia dalle membra immani, sicché la terra manda un gemito; nella stessa guisa, a volte, sull'euboico litorale di Baia precipita un ammasso di pietre che si era formato con grossi macigni e che gli uomini fanno cadere in mare, e l'ammasso cadendo tira con sé una frana e va a giacere nella profondità dei bassifondi; le acque si sconvolgono, vengono sollevate in alto le torbide sabbie, e ...

Tum sonitu Prochyta alta tremit durumque cubile
Inàrime Iovis imperiis imposta Typhoeo

(... allora per il frastuono tremano l'alta Procida e Inàrime che sta sopra Tifeo, suo duro giaciglio, per volere di Giove).

Nel Decameron di Giovanni Boccaccio l'isola è indicata direttamente: ? Ischia è una isola assai vicina di Napoli; nella quale fu già tra l'altre una giovanetta bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta ».
La storia di Tifeo - detto anche Typhaon, Typhon, Typhos, spesso confuso con il Tifone degli Egiziani, con il quale non si identifica - è molto antica; né Esiodo né coloro che hanno ampliato il suo poema sull'origine degli dei l'hanno raccontata; nella versione a noi nota si tratta di un «ritorno» dall'Asia Minore (Arima = monti della Cilicia). A Delfi figurava come avversario del dragone un figlio di Zeus, Apollo.
Il Tifeo dell'Asia Minore aveva figura per metà uomo e per metà bestia; superava in proporzioni e in forza tutti i figli di Gea; fino alle anche aveva forma umana ed era così alto che superava tutti i monti e spesso con la testa toccava le stelle; con un braccio arrivava fin dove il sole tramonta, con l'altro fin dove il sole sorge; tra le spalle gli spuntavano cento teste di serpenti; dalle anche in giù il suo corpo era come due giganteschi serpenti attorcigliati che gli arrivavano alla testa ed emettevano un suono sibilante.
Questo particolare cita Ludovico Ariosto nell'Orlando Furioso (canto XXVI, ottava 521): i due discendenti del «generoso, illustre e chiaro sangue d'Avalo» hanno per insegna lo scoglio che si tiene sotto sepolto, dal capo ai piedi di serpente, il gigante Tifeo:

lo scoglio, che dal capo ai piedi d'angue
par che l'empio Tifeo sotto si tegna.

Tutto il corpo del mostro era alato; i suoi capelli e la sua barba incolti si agitavano al vento, mentre fiamme ardevano nei suoi occhi; sibilando e muggendo, egli lanciava pietre infocate contro il cielo e, invece di saliva, dalla sua bocca divampavano fiamme.
Zeus si sentì sicuro del suo regno, soltanto quando riuscì a domare la tracotanza dei drago, che già una volta gli aveva amputato i nervi delle mani e dei piedi, e a seppellirlo sotto l'isola.
Ancora nell'Orlando Furioso (canto XXXIII, ottava 241):

. . . . lo scoglio ch'a Tifeo si stende
su le braccia, sul petto, e su la pancia.

In un altro passo è citato, sempre indirettamente, anche il monte Epomeo (canto XVI, ottava 231): si lotta attorno a Parigi e Rodomonte, «il saracin robusto» compie una strage. uccidendo e ardendo, e il poeta presenta la scena con alcune similitudini:

Quel che la tigre de l'armento imbelle
ne' campi ircani o là vicino al Gange,
o 'l lupo de le capre e de l'agnelle
nel monte che Tifeo sotto si frange;
quivi il crudel pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò falange,
ma vulgo e populazzo voglio dire,
degno, prima che nasca. di morire.

Con Tifeo si voleva rappresentare il fuoco sotterraneo che alimentava i vulcani sparsi nel Mediterraneo: gli si attribuivano numerose teste, secondo il numero dei vulcani che si credeva ardessero per i Campi Flegrei, anzi dalle Alpi ai Pirenei, Pindaro,

il di cui petto irsuto urlando freme
di Cuma sotto la cittade e il lido
anche di Etna, e Sicilia al Peso grave,
…………………….
Tifone nato da Cilicia all'antro
col setoloso petto giace oppresso
sotto il siculo suoi, di Arime e Cuma,
ove fiaccollo Giove irato, mentre
minaccioso scuotea cinquanta teste.

Anche la cartografia tenne presente il mito di Tifeo.
Una carta, disegnata da Mario Cartaro e riportata in alcuni esemplari della prima edizione dell'opera di Giulio lasolino «De' rimedi naturali che sono nell'isola di Pithecusa, hoggi detta Ischia», presenta il gigante tormentato dal peso dell'Epomeo: su una delle ginocchia poggia il castello; dalla bocca esce il soffio infocato delle fumarole; sono state però eliminate le sembianze non umane.
Un'incisione analoga di Antonio Baldi è contenuta nell'opera di Camillo Eucherio Ouinzi «Inàrime seu de balneis Pithecusarum»: Giove dall'alto ancora minaccia il gigante Tifeo, oppresso dal peso dell'isola.
L'Ariosto si riferisce all'isola anche con altra circonlocuzione o con la denominazione ormai corrente (Orlando Furioso, canto XXXII ottave 24?30):

. . . . . al re mostrò il castello
ch'or mostro a voi su quest'aitiero scoglio.

«Altiero» per il suo passato o per altra circostanza? Ché, qui («mostrato che ebbe Ischia») prendeva i natali, come profetizzò Merlino, pittore delle cose future («In Ischia nascer deve») un «cavalliero» (Alfonso d'Avalos), al cui paragone ogni altro eroe scade e l'isola avrà modo di andarne fiera:

né questa isola avrà da star cheta,
che non s'esalti e non si levi in cielo,
quando nascerà in lei quel gran marchese
ch'avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese.

Oggi i ritrovamenti e gli studi archeologici giustificano in altro senso l'aggettivo «altiero» e individuano un legame di vita, di operosità e di sentimenti con quei coloni che, incuranti finalmente delle superstizioni e delle paure, cominciarono a fondare i primi villaggi sino a fare di Pitecusa un centro notevole di commercio. Per ricostruire questo passato, non si può prescindere comunque dalla mitologia: «attività particolarmente creativa, quindi anche artistica, della psiche. Essa si accosta cioè alla poesia e interferisce con essa, pur restando autonoma accanto alla poesia, alla musica, alle arti figurative, alla filosofia, alla scienza».
Non senza significato, forse, testo poetico è il documento più importante che a Pitecusa è stato portato alla luce, e cioè, inciso su un vaso, un epigramma in versi esametri, il quale rappresenta il più antico esempio di scrittura greca trovato in Italia, il più antico squarcio di poesia dei tempi omerici scoperto in Occidente.
L'epigramma allude alla coppa di Nestore descritta nell'Iliade (canto XI, vv. 829/31): «un bellissimo nappo» da cui « ... una bevanda / uscir ne fece di cotal mistura, / che, apprestata e libata, ai due guerrieri / la sete estinse e rinfrancò le forze»; quella di Pitecusa ha una virtù nuova: «Vada alla malora la coppa di Nestore, buona solo a togliere a sete. Chi beva a questa mia coppa, subito lui prenderà desiderio di Afrodite dalla bella corona».

Bibliografia essenziale
C. Kerényi: Gli dei e gli eroi della Grecia. Voll. I e II, Il Saggiatore.
P. Buchner: Giulio Iasolino. Rizzoli.
D'Ascia: Storia dell'isola d'Ischia.
E. Iacono: L'Epomeo. Editrice R. Noccioli,
Omero: Iliade. Trad. di V. Monti, SEI.
Virgilio: Eneide, libro IX. Loescher,
P. Serra. Bibliografia isclana.
P. Petrarca: Opere.
L. Ariosto: Orlando Furioso.
G. Verde: La saga di Pitecusa o la leggenda dell'isola d'Ischia
P. Monti, Ischia preistorica, greca e romana; E.P.S., Napoli.