Forio

Wystan Hugh Auden e il Bar Maria


Rivista Letteraria
- Anno VI n. 2/3 - 1980

     Nino d'Ambra

    Il mio ricordo del poeta Auden
    Gli anni Cinquanta a Forio e l'insegnamento del poeta

  
Gli anni cinquanta a Forio determinarono una svolta storica nel modo di essere e di pensare dell'intera Isola d'Ischia. Nel bene e nel male. Negli anni cinquanta trova radice il culto del denaro e del potere che si assiderà nell'avvenire al di sopra di qualsiasi valore morale (la distruzione del paesaggio, barattato in benessere ne è la dimostrazione più evidente ed emblematica). Negli anni cinquanta si formano nuovi gruppi di giovani isolani, sprovincializzati intellettualmente, la cui crescita morale (se anche non si è riversata nelle masse popolari ed è rimasta un poco prigioniera di se stessa) e la cui potenziale carica vitale, indirizzata sicuramente verso il superamento di egoismi settoriali, non hanno perduto per istrada la iniziale spinta etica dirompente (nella consapevolezza che il massimo della civiltà è solidarietà e tolleranza).
  
Alla crescita positiva non fu estraneo un gruppo di intellettuali che, ciascuno per proprio conto, trovò l'ambiente foriano un corroborante vigoroso alla creatività: E. Bargheer, W. H. Auden, A. Moravia. E. Morante, P. P. Pasolini, L. De Libero, S. Andress, H. W. Henze, T. Capote e tanti altri.
  
Per noi ventenni il solo saperli in mezzo a noi era uno stimolo eccitante, a volte ossessivo, alla conoscenza, al sapere, a penetrare nei loro pensieri attraverso le loro opere e, soprattutto, attraverso le loro discussioni al "Bar Maria", Caffè Pedrocchi dei nostri anni più intensamente vissuti. Non perdevamo una sillaba, anche la più insignificante, eravamo una spugna. Tutto di loro ci coinvolgeva, in una spirale automatica, dove respiravamo poesia, giochi di colore a volte diabolici e musica dodecafonica; noi che uscivamo da una guerra dove sì le bombe ci avevano sfiorato, ma la fame, la mancanza di cibo, avevano informato il sentire di tutta la nostra fanciullezza. L'odio per la guerra inculcatoci dalla nostra educazione aveva trovato riscontro nella mancanza di pane: una certezza che vivemmo ogni giorno e che non ci avrebbe più abbandonati nemmeno negli anni del benessere (ancora oggi, per molti di noi, il pane secco che si dà via non ci lascia sereni). Poi gli americani, poi il turismo, poi la tranquillità fisiologica: finalmente si mangiava.
  
Il soddisfacimento dei bisogni primari aveva accresciuto in noi un'ansia esistenziale che ci lanciava alla ricerca di un appagamento spirituale di cui però non conoscevamo la strada per iniziare il percorso. Poi W. H. Auden : "Ama il tuo cattivo vicino con il tuo cattivo cuore, ma ama il tuo buon vicino con il tuo buon cuore" (1).
  
Era la speranza, l'inizio del percorso, un verbo laico che potevamo coniugare tutti e ci allontanava dalle nebbie di una fratellanza (quella dell'altra guancia) troppo onerosa per noi terreni. Non più astratti proponimenti tra angoscia e rifiuto totale, ma possibili oasi dove tutti gli uomini si potevano ritrovare. Un messaggio di solidarietà ed una proposta di tolleranza umana la cui praticabilità non era affidata solamente ad esseri di puro spirito ma soprattutto ad uomini figli dell'evoluzionismo biologico.
  
Poi, "Carriera di un libertino": Maria, la nostra Maria del "Bar", protagonista ideale di una bella favola di Auden! Una della nostra terra, protagonista! Il nostro campanilismo, non ancora completamente stabulato, ci faceva sentire il Poeta ancora più vicino, come gli scogli millenari o gli alberi o il mare che ci imprigionava tutti, lui compreso.
  C
ome il maglio di Mazinga, Auden colpiva dall'alto del suo trono, il vortice dell'arrivismo, lo smodato desiderio di ricchezza, gli istituti bancari, simboli emblematici di tale mentalità dilagante: le banche "Moderne nella loro impenitenza, / bionde, nude, paralizzate, sole,/ come angeli ribelli convertiti in pietra / le cattedrali secolari stanno / sui loro terreni costosi, / gelate per sempre in una menzogna / decise sempre a negare / che l'uomo è debole e deve morire,..." (2). Una strada alternativa che non era la corsa sfrenata al benessere, affinamento degli artigli dell'animale; dove la parola, il gesto, l'amore non erano incanalati, come in una partita a scacchi, verso la perfezione di un istinto ancestrale: il potere sugli altri! Un motivo analizzato con acume di grande maestro anche in "Poscritto: Dollaro Onnipotente" (3) nella sottile differenza tra l'amore per il denaro dell'europeo e l'amore per il denaro dell'americano, nei rispettivi gelidi scopi e desideri.
  
E ancora dava una risposta "concreta e definitiva" al nostro socialismo libertario - tra utopia e realtà - come un dio laico che ammanniva per noi un nuovo vangelo, "Epitaffio per un Tiranno": "Una sorta di perfezione era la sua mèta, / E la poesia che egli inventava era facile da capire, / conosceva la follia umana come il dorso della sua mano, / e aveva grande interesse per gli eserciti e per le flotte; / quando rideva, venerabili senatori scoppiavano dal ridere; / e quando piangeva i bambini morivano nelle strade" (4). Ma attraverso la vita ed il dramma esistenziale (di risonanza kierkegaardiana) di Rosetta, l'ebrea de "L'Età dell'Ansia", e dei suoi tre compagni, Auden continuava a farci rivivere, nella certezza di un messaggio evangelico, l'orrore della guerra ed il dolore umano che investiva l'uomo come tale nella perplessità e sgomento ondeggiante tra vita e morte. Non ci deluderà neppure dopo: il suo faro continuava da lontano con luce accecante; in "Agosto 1968" vinceva con il messaggio poetico la brutale aggressione sovietica alla Cecoslovacchia: "L'Orco fa quello che può fare un orco, / imprese affatto impossibili per l'Uomo, / Ma c'è una preda al di là del suo dono, / L'Orco non può appropriarsi il Discorso: / Attorno a una pianura soggiogata, / In mezzo a gente uccisa e disperata, / L' Orco cammina e sventaglia il suo brando, / Tronfio e impettito, ma sproloquio sbavando". (5)
Nel suo "vangelo" non solo veniva lievitato pane per la nostra mente, ma non mancavano paragrafi per i nostri sentimenti elettrizzati di ventenni; così "Festa d'Amore": "Sotto i tetti a mezzanotte / siamo riuniti nel nome / D'amore secondo il vangelo / Del radiofonografo / … / Fammi casto, Signore, ma non ancora". (6). Non solo la gioia dell'amore a vortice, dove ti senti annegare ]'esistenza, ma il tumulto della delusione d'amore che sembrava scuotere l'universo: "Fermate tutti gli orologi, tagliate il telefono, / date al cane che abbaia un osso midolloso, / fate tacere i pianoforti, e con i tamburi smorzati / portate fuori la bara, vengano gli accompagnatori. /… / pensavo che l'amore durasse per sempre: sbagliavo. / Le stelle non sono più necessarie ora: spegnetele tutte; / imballate la luna e smantellate il sole; / vuotate l'oceano e spazzate via il bosco. / Poiché niente ormai potrà dare alcun bene" (7).

"Nulla vogliamo dal sogno"

  Poco più che ventenne stavo per stampare una mia prima raccolta di cinquanta poesie. Avevo più volte pensato di rivolgermi ad Auden per una presentazione, ma il mio desiderio era stato subito represso per la considerata temerarietà dell'azzardo. Immaginavo già la faccia del Poeta, piena di ironia, quando avrei avanzato la richiesta. Più volte desistetti rimproverando me stesso per la mancanza di modestia solo nell'abbozzare una eventualità così astrale.
  
Un giorno mi feci coraggio (già faceva capolino la faccia tosta del politico) e ne parlai con Edoardo Bargheer, amico di sempre e nostro buon padre in problemi socio-culturali; e naturalmente chiesi a lui di farmi da tramite. Bargheer riuscì a convincermi che il modo migliore era di affrontare personalmente Auden che, a suo dire, era sensibile ai giovani che si cimentavano con la poesia. Così cominciò la "caccia". Non riuscivo mai a vederlo solo per avvicinarmi a lui.
  
Per più giorni feci un vero e proprio appostamento da un tavolino, a poca distanza dal suo, al "Bar Maria". Con altre persone davanti non sarei certamente riuscito a forzare il rossore delle guance.
  
Era verso mezzogiorno, una giornata piena di sole e già cominciavo a ripensarci allorché lo vidi allontanarsi da solo dal tavolino pieno di gente; "ora, o mai più", pensai. Corsi, superandolo, per potermi poi girare ed incontrarlo di fronte, come per caso. "Professore, posso parlarle?" la mia tensione era al massimo. La sua risposta alle mie richieste fu così garbata e conciliante, da mettermi immediatamente a mio agio. Quel suo trattarmi alla pari non smentiva la sua fama di uomo superiore. All'invitò per la sera successiva a prendere un drink, sempre "Da Maria" manco a dirlo, e a consegnargli il manoscritto.
  
Un'ora prima già giravo su e giù davanti al "Bar Maria" con il mio carico di entusiasmo e di speranze. Quando Auden arrivò, dopo qualche minuto di finta incertezza, mi sedetti al suo tavolino. Aprì lui la conversazione chiedendomi della poesia italiana dall'Ottocento alle avanguardie e di quella straniera. Non mi sembrava vero di poter fare sfoggio di Leopardi (forse il suo preferito), di Montale, Ungaretti, Cardarelli, Rilke, e parlare della prosa di Albert Camus, altro mio nume tutelare di quegli anni. Intanto i soliti accompagnatori di Auden al bar si avvicinavano tentando di sedersi, ma venivano fermati o dai miei sguardi non invitanti oppure dalla preghiera di ritornare fra poco. Alla fine la valanga ebbe il sopravvento, interrompendo una conversazione, che io avrei fatto durare ancora per ore. Consegnai il manoscritto e mi allontanai con inchini che, data la mia altezza, si notavano da un chilometro di distanza.
  
Quindici giorni Auden si tenne il manoscritto. Furono per me quindici giorni di agitazione e di ansia. La sera non mancavo mai al "Bar Maria" a prendere un drink in corrispondenza dell'orario in cui sapevo che c'era Auden. Mi alzavo "distrattamente" passando vicino al suo tavolino per salutarlo e farmi notare, sperando in un cenno di richiamo. Passati dieci giorni, la mia agitazione aumentava. Di notte facevo mille supposizioni; "avrà trovato inconsistenti le mie poesie, pensavo, e l'imbarazza comunicarmelo". Era la supposizione che maggiormente dominava le mie ipotesi. Era il centro dei miei pensieri, delle mie giornate e, allora pensavo, del mio futuro.
  
Alla quindicesima sera di quello che per me era diventato un rito, al mio consueto "buonasera" un cenno con la mano e mi vidi rifilare il manoscritto in restituzione ed un foglio di carta vergatina con undici righi dattiloscritti in inglese e la firma a penna stilografica "W. H. Auden", accompagnato da un impercettibile e rassicurante sorriso.
  
Non conoscendo l'inglese dovevo immediatamente trovare un traduttore. Corsi per istrada col cuore in gola. Finalmente incontrai Luis Felipe Collado, pittore e scrittore cubano, simpatico e coltissimo amico, che conosceva bene l'inglese e l'italiano, ed era stato lui, in precedenza, a farci comprendere ed amare la poesia di Auden. Alla luce di un negozio cominciò a passarmi il significato delle prime frasi, intercalandole, con la sua voce cavernosa "è un pezzo d'oro che ti ha dato".
  
Intanto la notizia si era sparsa per il paese; il gruppo, composto soprattutto di giovani della mia età, si infoltiva sempre più intorno al traduttore il quale, con il suo intercalare "è un pezzo d'oro che ti ha dato", rendeva l'avvenimento ancor più sensazionale. Ogni frase tradotta passava di bocca in bocca fino ad arrivare a quelli troppo lontani da Callado per poter udire la sua voce, pur potente.           L'entusiasmo aveva coinvolto tutti ed aveva trovato facile esca nella purezza disincantata di un paese ancora senza malizia e senza arroganza. Avevamo invaso tutta la strada e quelle poche macchine di allora, che pur dovevano passare, cominciavano a strombettare. Arrivò Gimì, il vigile urbano, un po' grassoccio, pur con quella faccia rubiconda di brava persona ci fece sentire tutta la gravità della nostra infrazione e tutto il peso del potere. Per lui, ligio al dovere, la carta vergatina di Auden era molto meno che il foglietto per contravvenzioni! "L'assembramento" si disciolse e tutti scendemmo sulla terra.
  
L'indomani mattina Luis mi riportò il foglio vergatino (a lui affidato con malcelata, se pur ingiustificata, diffidenza) con la traduzione in italiano. Le divorai entrambe, fissandole così nella memoria come oggi le riporto. L'avvenimento della mia giovinezza intellettuale, la scala per regni illuminati di conoscenza!

"Since they are written in my mother tongue, I cannot, of course, speak of Signor D'Ambra's poems with real authority. I can only say how much, personally, I have enjoyed reading them.
Of all kinds of verse, the unrhymed short lyric is, perhaps, the most difficult to write with success, but Signor D'Ambra has, to my mind, succeeded. I find the expression direct without triviality, elegant without affectation, and the emotions, whether of nostalgia, irony, stoic resignation, at once genuine, subtle and significant. I am particularly struck by ability to write free verse in such a way that the lines do not sound arbitrarily chopped. - W. H. Auden"

"Poiché non sono scritte nella mia lingua materna, io non posso, perciò, parlare delle poesie di Nino d'Ambra con piena autorità. Posso solo dire quanto, personalmente, ho goduto leggendole.
Di tutti i tipi di versi, il corto non rimato è, chissà, il più difficile a scrivere con successo, ma Nino d'Ambra, secondo me, ha successo. Trovo le sue espressioni dirette senza trivialità, eleganti senza affettazione, e le emozioni, sia di nostalgia sia di ironia sia di rassegnazione stoica, nello stesso tempo, genuine delicate e significative. Mi ha particolarmente colpito la sua abilità di scrivere versi liberi, in modo che le linee non suonano come prosa arbitrariamente tagliata, ma incantano le orecchie come soltanto ritmiche creature viventi possono fare" (8).

Avvocato di AUDEN

  
Mi ero da poco laureato in giurisprudenza, e posso affermare che Auden fu il mio primo cliente. Quando mi mandò a chiamare, mi precipitai, non sembrandomi vero che io potessi contraccambiare, almeno in cortesia, la grande emozione e la iniezione di entusiasmo che mi aveva donato l'anno prima, quando mi scrisse "il pezzo d'oro" per i miei versi.
  
Poiché già nel paese si vociferava che doveva partire (era primavera avanzata del 1958), l'esattore comunale gli mandò a notificare una diffida di pagamento per tasse. Il messo Fiorentino, dopo aver bussato alla porta, non fu ammesso alla presenza del Poeta (evidentemente per incomprensione dovuta alla lingua), che stava scrivendo, e gli fu detto di ritornare, quando si rifiutò di laciare "la carta" a chi gli aveva aperto la porta. "Devo vedere il signor Odèn (sic)", insisteva il Fiorentino e, pur timido, forte del suo buon diritto, minacciava sanzioni varie. Gli fu chiusa la porta in faccia e trattato come un qualsiasi disturbatore. Ma non si arrese e si avventò sul battente di ferro. I colpi erano così forti che destarono l'attenzione di tutto il vicinato. "Devo parlare con il signor Odèn", continuava in un intercalare ossessivo. Dopo buoni dieci minuti di quel chiasso, è facile dedurre che il Poeta si era ormai distratto dal suo lavoro, che doveva essere di particolare impegno, arguendo dalla sua inconsueta reazione. Auden aprì lui stesso la porta e, scuro in viso, domandò cosa volesse il messo. Fiorentino a stento celando il suo trionfo, gli consegnò la carta rosa e Auden, come l'ebbe nelle mani, la strappò con rabbia e ne buttò i pezzi sulla strada; poi chiuse la porta e si ritirò in casa. Dopo un'ora ero già da lui. Cercai di fargli comprendere che il foglio che lui aveva strappato era evidentemente l'ultimo di una lunga serie che doveva già aver ricevuto nei mesi passati, per cui, allo stato, non si poteva più fare reclamo. Questo ragionamento, per me della materia, elementare, non sembrava far breccia nella mente, pur sconfinata del Poeta, che accusava di bizantinismo la legge italiana; ed io di rimando, per sdrammatizzare, risposi che proprio lui non doveva far scivolare la parola "bizantinismo" allorché mezzo mondo intellettuale si domandava del significato recondito di molti suoi versi! Questa battuta lo fece sorridere e mi invitò al party che aveva già organizzato per la sera, anche al fine di concludere il discorso sulle tasse. Ahimè! Durante la festa, quasi tutti gli invitati si sentirono in diritto di dire la loro, e tutti per sostenere (spesso a sproposito) il buon diritto del Poeta a non pagare; facendo fronte unico contro di me, come se io fossi stato il responsabile di tutto! Mi salvò Auden, chiudendo la discussione col dire che avrebbe pagato all'indomani: "in fondo sono poche migliaia di lire!"

 
Il secondo incarico professionale che ebbi da Auden fu quello di affrontare (è il caso) il sig. Monte, per l'esattezza Giulio, di "Addio al Alezzogiorno", padrone di casa dove aveva vissuto negli ultimi anni a Forio d'Ischia. Il Monte era assistito dall'avv. Franchino d'Ascia, esattore di Forio, lo stesso che gli aveva inviato il foglietto rosa di morosità. In verità entrambi buoni diavoli; il loro torto era forse quello di avere un modo di fare da apparire eccessivamente petulanti.
  
I termini della vertenza erano semplici: Auden avrebbe lasciato la casa nell'estate del 1958 e cioè prima della scadenza del contratto, per cui Giulio Monte, il proprietario, voleva essere pagato anche per il periodo in cui il Poeta non avrebbe usufruito dell'appartamento. Già da tempo i rapporti tra i due non erano dei più cordiali, soprattutto perché il Monte per ogni sciocchezza andava dall'inquilino a reclamare, interrompendo il suo lavoro. Auden si tratteneva in casa solo per scrivere; quando voleva riposarsi o distrarsi andava al "Bar Maria" o a risolvere cruciverba oppure a conversare con gli amici, bevendo un bicchiere di vino. Il Monte reputava invece che era più corretto andare a casa per parlargli anziché avvicinarlo quando era al bar.
  
L'arengo era la sala da pranzo del Poeta; seduti di fronte al lato lungo di un tavolo di legno rettangolare: il Monte con il suo avvocato da un lato ed il celebre inquilino ed io dall'altro. Le conversazioni, che durarono per diverse sedute, cominciavano poco dopo le undici del mattino, quando Auden aveva finito di scrivere. Il Poeta era lì presente e non prendeva parte alla conversazione, spesso accesa e gestuata, che avveniva fra gli altri tre protagonisti. Il suo volto così solcato non accennava mai né ad un sorriso, né ad un cenno di approvazione o negazione. Era tra lo affascinato e stupito a quella che doveva apparire a lui come una scena teatrale, in bilico tra il dramma e la commedia, ma che certo intimamente lo divertiva. Anche se di tanto in tanto doveva pur pensare che la conclusione di quel fiume di bizantinismi verbali avrebbe comunque investito le sue finanze, mai gestite con eccessiva liberalità! Sono convinto che quella esperienza nuova lo divertiva. Forse è lì la spiegazione della sua gratitudine perfino al sig. Monte di "Addio al Mezzogiorno", poesia scritta a circa un mese da quegli avvenimenti e probabilmente in parte maturata durante i suoi lunghi silenzi da spettatore disincantato ad assistere la nostra naturale commedia.
  
Come sempre finiscono queste cose, la vertenza tra Giulio Monte e W. H. Auden finì con una transazione.
  
Lo rividi alcuni giorni dopo quando andai a salutarlo per la partenza: dovevo ritirare le chiavi di casa per consegnarle poi ad una famiglia di suoi amici che si sarebbero trattenuti una decina di giorni (con il consenso concordato del proprietario) e poi riconsegnarle definitivamente al Monte.
  
Era verso mezzogiorno, aveva già le valigie pronte, solo una era semichiusa per introdurvi le ultime cose. Lo salutai un po' commosso, sentimento che si intensificò, commisto ad imbarazzo, quando stringendomi la mano, mi disse "grazie!"
  
Mentre stavo per aprire la porta mi richiamò. Mi voltai e vidi che dalla valigia semichiusa aveva tirato fuori il mio libretto di poesie con la sua prefazione e, tenendolo in mano, agitava il braccio in segno di saluto. Appena pubblicato, mesi prima, gli avevo fatto dono della prima copia e (ritenendo che lui si accingeva a lasciare Forio soprattutto perché infastidito dal comportamento dell'Amministrazione comunale dell'epoca nei suoi confronti e di alcune persone del posto) gli avevo scritto una dedica con quei suoi versi che maggiormente mi avevano affascinato: "ama il tuo cattivo vicino con il tuo cattivo cuore, ma ama il tuo buon vicino con il tuo buon cuore".
  
Nel chiudere la porta pensa - e non credo che sbagliassi - che col salutarmi agitando con la mano il mio libretto di poesie, volesse alludere al significato della dedica. Non riuscii a dire altra parola. A passo svelto mi allontanai.

Il messaggio continua

  
Cadrebbe in errore chi facesse coincidere il messaggio poetico-sociale-esistenziale di Auden con la sua biografia, esaurendolo il 29 settembre 1973 a kirchstetten in Austria.
  
Auden è uno "storiografo sui generis" che ha registrato il suo tempo (il nostro) in immagini poetiche ed in visioni universali; ne ha scolpito e rispecchiato le articolazioni e le incidenze dei pilastri fondamentali e fino a quando questi pilastri (mass media, religione, dittatura, democrazia, atomica, ecc...) rimarranno i cardini delle società future, il suo messaggio sarà sempre "attuale". La sua opera di "poeta-storiografo-veggente" è ancora chiusa in parte sotto chiave ed ogni epoca futura ne afferrerà quella porzione allora più facilmente riscontrabile.
  
La pleiade dei suoi critici ha affermato che il capolavoro che ci si aspettava da Auden si è fatto attendere invano. Ma il suo "capolavoro" sta proprio nell'aver lanciato, con ironia ed angoscia, un veemente messaggio di poesia che rispecchia non solo l'uomo-soggetto e la società in cui il poeta è vissuto (con valore artistico ed estetico incontestabile), ma soprattutto un Futuro molto lontano prevedibilmente dominato dagli stessi pilastri di oggi.
  
Come non pensare a questi concetti quando si legge in The Dyer's Hand "quello che i mass media offrono non è arte popolare, ma divertimento fatto per essere consumato come cibo, dimenticato e sostituito da una nuova pietanza?" Chi ci viene a negare che le "dolorose" realtà come l'atomica, la violenza e la droga non saranno più attuali fra un secolo e fra due? E che il rapporto fra gli uomini per quel tempo si sarà modificato? "Legati a noi stessi per la vita, dobbiamo apprendere come sopportarci a vicenda" (9).
  
Mai Auden perde di vista i suoi obiettivi, sempre lucidi e di profonde significazioni; anche quando si riposa ed ha bisogno di frapporre un muro di benvenuta nebbia che lo separi, con la sua serena e rassegnata stanchezza, dall'arroganza della società dei consumi: "Nessun sole d'estate / smantellerà mai l'ombra globale / gettata dai Quotidiani, / vomitanti in sciatta prosa / i fatti di grettezza e di violenza / che siamo troppo ottusi per prevenire: / la nostra terra è un luogo triste, ma / per questo speciale interim, / così riposante, eppure così festivo, / Grazie, Grazie, Grazie, Nebbia" (10).
  
Thank You, Thank You, Thank You, Mr. Auden

1) "You shall love your crooked neighbour / with your crooked hearth. / You shall love your straight neighbour / with your straight hearth". Così come ce li diceva Auden (letteralmente ossessionato dalle nostre petulanti richieste di spiegazioni), se i ricordi e gli appunti di allora, dopo circa trent'anni, non hanno subito anch' essi l'usura del tempo.
2) "Lettera per il nuovo anno", traduzione di Giovanni Fattorini. In Opere poetiche di W. H. Auden, vol. I, Milano, Lerici Editore. 1966; alle pagg. 244/245.
3) W. H. Auden, Il jolly nel mazzo, traduzione di Gabriella Fiori Andreini, Milano, Garzanti, 1972; alle pagg. 177/178.
4) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Carlo Izzo, Parma, Guanda, 1961; alle pagg. 38/39.
5) W. H. Auden, Città senza mura, traduzione di Aurora Ciliberti, Milano, A.Mondadori,1981; allepagg. 188/189
6) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Carlo Izzo, Parma, Guanda, 1961; alle pagg. 200
7) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Aurora Ciliberti, Milano, Oscar Mondadori, 1981 ; alle pagg. 60/61.
8) N. d'Ambra, Nulla vogliamo dal sogno, Milano, Intelisano editore, 1957; alle pagg. 5/6.
9) W. H. Auden, Grazie nebbia!, traduzione di Aurora Ciliberti, Guanda, 1977; alle pagg. 58/59.
10) Wystan Hugh Auden, Grazie nebbia!, traduzione di Aurora Ciliberti, Guanda, 1977; alle pagg. 28/29.

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