Rivista Letteraria - Anno VI n. 2/3 - 1980
Nino
d'Ambra
Il
mio ricordo del poeta Auden
Gli anni Cinquanta a Forio e l'insegnamento
del poeta
Gli
anni cinquanta a Forio determinarono una svolta storica nel modo
di essere e di pensare dell'intera Isola d'Ischia. Nel bene e
nel male. Negli anni cinquanta trova radice il culto del denaro
e del potere che si assiderà nell'avvenire al di sopra
di qualsiasi valore morale (la distruzione del paesaggio, barattato
in benessere ne è la dimostrazione più evidente
ed emblematica). Negli anni cinquanta si formano nuovi gruppi
di giovani isolani, sprovincializzati intellettualmente, la cui
crescita morale (se anche non si è riversata nelle masse
popolari ed è rimasta un poco prigioniera di se stessa)
e la cui potenziale carica vitale, indirizzata sicuramente verso
il superamento di egoismi settoriali, non hanno perduto per istrada
la iniziale spinta etica dirompente (nella consapevolezza che
il massimo della civiltà è solidarietà e
tolleranza).
Alla
crescita positiva non fu estraneo un gruppo di intellettuali che,
ciascuno per proprio conto, trovò l'ambiente foriano un
corroborante vigoroso alla creatività: E. Bargheer, W.
H. Auden, A. Moravia. E. Morante, P. P. Pasolini, L. De Libero,
S. Andress, H. W. Henze, T. Capote e tanti altri.
Per
noi ventenni il solo saperli in mezzo a noi era uno stimolo eccitante,
a volte ossessivo, alla conoscenza, al sapere, a penetrare nei
loro pensieri attraverso le loro opere e, soprattutto, attraverso
le loro discussioni al "Bar Maria", Caffè Pedrocchi
dei nostri anni più intensamente vissuti. Non perdevamo
una sillaba, anche la più insignificante, eravamo una spugna.
Tutto di loro ci coinvolgeva, in una spirale automatica, dove
respiravamo poesia, giochi di colore a volte diabolici e musica
dodecafonica; noi che uscivamo da una guerra dove sì le
bombe ci avevano sfiorato, ma la fame, la mancanza di cibo, avevano
informato il sentire di tutta la nostra fanciullezza. L'odio per
la guerra inculcatoci dalla nostra educazione aveva trovato riscontro
nella mancanza di pane: una certezza che vivemmo ogni giorno e
che non ci avrebbe più abbandonati nemmeno negli anni del
benessere (ancora oggi, per molti di noi, il pane secco che si
dà via non ci lascia sereni). Poi gli americani, poi il
turismo, poi la tranquillità fisiologica: finalmente si
mangiava.
Il
soddisfacimento dei bisogni primari aveva accresciuto in noi un'ansia
esistenziale che ci lanciava alla ricerca di un appagamento spirituale
di cui però non conoscevamo la strada per iniziare il percorso.
Poi W. H. Auden : "Ama il tuo cattivo vicino con il tuo
cattivo cuore, ma ama il tuo buon vicino con il tuo buon cuore"
(1).
Era
la speranza, l'inizio del percorso, un verbo laico che potevamo
coniugare tutti e ci allontanava dalle nebbie di una fratellanza
(quella dell'altra guancia) troppo onerosa per noi terreni. Non
più astratti proponimenti tra angoscia e rifiuto totale,
ma possibili oasi dove tutti gli uomini si potevano ritrovare.
Un messaggio di solidarietà ed una proposta di tolleranza
umana la cui praticabilità non era affidata solamente ad
esseri di puro spirito ma soprattutto ad uomini figli dell'evoluzionismo
biologico.
Poi,
"Carriera di un libertino": Maria, la nostra
Maria del "Bar", protagonista ideale di una bella favola
di Auden! Una della nostra terra, protagonista! Il nostro campanilismo,
non ancora completamente stabulato, ci faceva sentire il Poeta
ancora più vicino, come gli scogli millenari o gli alberi
o il mare che ci imprigionava tutti, lui compreso.
Come
il maglio di Mazinga, Auden colpiva dall'alto del suo trono, il
vortice dell'arrivismo, lo smodato desiderio di ricchezza, gli
istituti bancari, simboli emblematici di tale mentalità
dilagante: le banche "Moderne nella loro impenitenza,
/ bionde, nude, paralizzate, sole,/ come angeli ribelli convertiti
in pietra / le cattedrali secolari stanno / sui loro terreni costosi,
/ gelate per sempre in una menzogna / decise sempre a negare /
che l'uomo è debole e deve morire,..." (2). Una
strada alternativa che non era la corsa sfrenata al benessere,
affinamento degli artigli dell'animale; dove la parola, il gesto,
l'amore non erano incanalati, come in una partita a scacchi, verso
la perfezione di un istinto ancestrale: il potere sugli altri!
Un motivo analizzato con acume di grande maestro anche in "Poscritto:
Dollaro Onnipotente" (3) nella sottile differenza tra
l'amore per il denaro dell'europeo e l'amore per il denaro dell'americano,
nei rispettivi gelidi scopi e desideri.
E
ancora dava una risposta "concreta e definitiva" al
nostro socialismo libertario - tra utopia e realtà - come
un dio laico che ammanniva per noi un nuovo vangelo, "Epitaffio
per un Tiranno": "Una sorta di perfezione era
la sua mèta, / E la poesia che egli inventava era facile
da capire, / conosceva la follia umana come il dorso della sua
mano, / e aveva grande interesse per gli eserciti e per le flotte;
/ quando rideva, venerabili senatori scoppiavano dal ridere; /
e quando piangeva i bambini morivano nelle strade" (4).
Ma attraverso la vita ed il dramma esistenziale (di risonanza
kierkegaardiana) di Rosetta, l'ebrea de "L'Età
dell'Ansia", e dei suoi tre compagni, Auden continuava
a farci rivivere, nella certezza di un messaggio evangelico, l'orrore
della guerra ed il dolore umano che investiva l'uomo come tale
nella perplessità e sgomento ondeggiante tra vita e morte.
Non ci deluderà neppure dopo: il suo faro continuava da
lontano con luce accecante; in "Agosto 1968"
vinceva con il messaggio poetico la brutale aggressione sovietica
alla Cecoslovacchia: "L'Orco fa quello che può
fare un orco, / imprese affatto impossibili per l'Uomo, / Ma c'è
una preda al di là del suo dono, / L'Orco non può
appropriarsi il Discorso: / Attorno a una pianura soggiogata,
/ In mezzo a gente uccisa e disperata, / L' Orco cammina e sventaglia
il suo brando, / Tronfio e impettito, ma sproloquio sbavando".
(5)
Nel suo "vangelo" non solo veniva lievitato pane per
la nostra mente, ma non mancavano paragrafi per i nostri sentimenti
elettrizzati di ventenni; così "Festa d'Amore":
"Sotto i tetti a mezzanotte / siamo riuniti nel nome /
D'amore secondo il vangelo / Del radiofonografo / … / Fammi
casto, Signore, ma non ancora". (6). Non solo la gioia
dell'amore a vortice, dove ti senti annegare ]'esistenza, ma il
tumulto della delusione d'amore che sembrava scuotere l'universo:
"Fermate tutti gli orologi, tagliate il telefono, / date
al cane che abbaia un osso midolloso, / fate tacere i pianoforti,
e con i tamburi smorzati / portate fuori la bara, vengano gli
accompagnatori. /… / pensavo che l'amore durasse per sempre:
sbagliavo. / Le stelle non sono più necessarie ora: spegnetele
tutte; / imballate la luna e smantellate il sole; / vuotate l'oceano
e spazzate via il bosco. / Poiché niente ormai potrà
dare alcun bene" (7).
"Nulla
vogliamo dal sogno"
Poco
più che ventenne stavo per stampare una mia prima raccolta
di cinquanta poesie. Avevo più volte pensato di rivolgermi
ad Auden per una presentazione, ma il mio desiderio era stato
subito represso per la considerata temerarietà dell'azzardo.
Immaginavo già la faccia del Poeta, piena di ironia, quando
avrei avanzato la richiesta. Più volte desistetti rimproverando
me stesso per la mancanza di modestia solo nell'abbozzare una
eventualità così astrale.
Un
giorno mi feci coraggio (già faceva capolino la faccia
tosta del politico) e ne parlai con Edoardo Bargheer, amico di
sempre e nostro buon padre in problemi socio-culturali; e naturalmente
chiesi a lui di farmi da tramite. Bargheer riuscì a convincermi
che il modo migliore era di affrontare personalmente Auden che,
a suo dire, era sensibile ai giovani che si cimentavano con la
poesia. Così cominciò la "caccia". Non
riuscivo mai a vederlo solo per avvicinarmi a lui.
Per
più giorni feci un vero e proprio appostamento da un tavolino,
a poca distanza dal suo, al "Bar Maria". Con altre persone
davanti non sarei certamente riuscito a forzare il rossore delle
guance.
Era
verso mezzogiorno, una giornata piena di sole e già cominciavo
a ripensarci allorché lo vidi allontanarsi da solo dal
tavolino pieno di gente; "ora, o mai più", pensai.
Corsi, superandolo, per potermi poi girare ed incontrarlo di fronte,
come per caso. "Professore, posso parlarle?" la mia
tensione era al massimo. La sua risposta alle mie richieste fu
così garbata e conciliante, da mettermi immediatamente
a mio agio. Quel suo trattarmi alla pari non smentiva la sua fama
di uomo superiore. All'invitò per la sera successiva a
prendere un drink, sempre "Da Maria" manco a dirlo,
e a consegnargli il manoscritto.
Un'ora
prima già giravo su e giù davanti al "Bar Maria"
con il mio carico di entusiasmo e di speranze. Quando Auden arrivò,
dopo qualche minuto di finta incertezza, mi sedetti al suo tavolino.
Aprì lui la conversazione chiedendomi della poesia italiana
dall'Ottocento alle avanguardie e di quella straniera. Non mi
sembrava vero di poter fare sfoggio di Leopardi (forse il suo
preferito), di Montale, Ungaretti, Cardarelli, Rilke, e parlare
della prosa di Albert Camus, altro mio nume tutelare di quegli
anni. Intanto i soliti accompagnatori di Auden al bar si avvicinavano
tentando di sedersi, ma venivano fermati o dai miei sguardi non
invitanti oppure dalla preghiera di ritornare fra poco. Alla fine
la valanga ebbe il sopravvento, interrompendo una conversazione,
che io avrei fatto durare ancora per ore. Consegnai il manoscritto
e mi allontanai con inchini che, data la mia altezza, si notavano
da un chilometro di distanza.
Quindici
giorni Auden si tenne il manoscritto. Furono per me quindici giorni
di agitazione e di ansia. La sera non mancavo mai al "Bar
Maria" a prendere un drink in corrispondenza dell'orario
in cui sapevo che c'era Auden. Mi alzavo "distrattamente"
passando vicino al suo tavolino per salutarlo e farmi notare,
sperando in un cenno di richiamo. Passati dieci giorni, la mia
agitazione aumentava. Di notte facevo mille supposizioni; "avrà
trovato inconsistenti le mie poesie, pensavo, e l'imbarazza comunicarmelo".
Era la supposizione che maggiormente dominava le mie ipotesi.
Era il centro dei miei pensieri, delle mie giornate e, allora
pensavo, del mio futuro.
Alla
quindicesima sera di quello che per me era diventato un rito,
al mio consueto "buonasera" un cenno con la mano e mi
vidi rifilare il manoscritto in restituzione ed un foglio di carta
vergatina con undici righi dattiloscritti in inglese e la firma
a penna stilografica "W. H. Auden", accompagnato da
un impercettibile e rassicurante sorriso.
Non
conoscendo l'inglese dovevo immediatamente trovare un traduttore.
Corsi per istrada col cuore in gola. Finalmente incontrai Luis
Felipe Collado, pittore e scrittore cubano, simpatico e coltissimo
amico, che conosceva bene l'inglese e l'italiano, ed era stato
lui, in precedenza, a farci comprendere ed amare la poesia di
Auden. Alla luce di un negozio cominciò a passarmi il significato
delle prime frasi, intercalandole, con la sua voce cavernosa "è
un pezzo d'oro che ti ha dato".
Intanto
la notizia si era sparsa per il paese; il gruppo, composto soprattutto
di giovani della mia età, si infoltiva sempre più
intorno al traduttore il quale, con il suo intercalare "è
un pezzo d'oro che ti ha dato", rendeva l'avvenimento ancor
più sensazionale. Ogni frase tradotta passava di bocca
in bocca fino ad arrivare a quelli troppo lontani da Callado per
poter udire la sua voce, pur potente. L'entusiasmo
aveva coinvolto tutti ed aveva trovato facile esca nella purezza
disincantata di un paese ancora senza malizia e senza arroganza.
Avevamo invaso tutta la strada e quelle poche macchine di allora,
che pur dovevano passare, cominciavano a strombettare. Arrivò
Gimì, il vigile urbano, un po' grassoccio, pur con quella
faccia rubiconda di brava persona ci fece sentire tutta la gravità
della nostra infrazione e tutto il peso del potere. Per lui, ligio
al dovere, la carta vergatina di Auden era molto meno che il foglietto
per contravvenzioni! "L'assembramento" si disciolse
e tutti scendemmo sulla terra.
L'indomani
mattina Luis mi riportò il foglio vergatino (a lui affidato
con malcelata, se pur ingiustificata, diffidenza) con la traduzione
in italiano. Le divorai entrambe, fissandole così nella
memoria come oggi le riporto. L'avvenimento della mia giovinezza
intellettuale, la scala per regni illuminati di conoscenza!
"Since
they are written in my mother tongue, I cannot, of course, speak
of Signor D'Ambra's poems with real authority. I can only say
how much, personally, I have enjoyed reading them.
Of all kinds of verse, the unrhymed short lyric is, perhaps,
the most difficult to write with success, but Signor D'Ambra
has, to my mind, succeeded. I find the expression direct without
triviality, elegant without affectation, and the emotions, whether
of nostalgia, irony, stoic resignation, at once genuine, subtle
and significant. I am particularly struck by ability to write
free verse in such a way that the lines do not sound arbitrarily
chopped. - W. H. Auden"
"Poiché
non sono scritte nella mia lingua materna, io non posso, perciò,
parlare delle poesie di Nino d'Ambra con piena autorità.
Posso solo dire quanto, personalmente, ho goduto leggendole.
Di
tutti i tipi di versi, il corto non rimato è, chissà,
il più difficile a scrivere con successo, ma Nino d'Ambra,
secondo me, ha successo. Trovo le sue espressioni dirette senza
trivialità, eleganti senza affettazione, e le emozioni,
sia di nostalgia sia di ironia sia di rassegnazione stoica,
nello stesso tempo, genuine delicate e significative. Mi
ha particolarmente colpito la sua abilità di scrivere
versi liberi, in modo che le linee non suonano come prosa arbitrariamente
tagliata, ma incantano le orecchie come soltanto ritmiche creature
viventi possono fare" (8).
Avvocato
di AUDEN
Mi
ero da poco laureato in giurisprudenza, e posso affermare che
Auden fu il mio primo cliente. Quando mi mandò a chiamare,
mi precipitai, non sembrandomi vero che io potessi contraccambiare,
almeno in cortesia, la grande emozione e la iniezione di entusiasmo
che mi aveva donato l'anno prima, quando mi scrisse "il pezzo
d'oro" per i miei versi.
Poiché
già nel paese si vociferava che doveva partire (era primavera
avanzata del 1958), l'esattore comunale gli mandò a notificare
una diffida di pagamento per tasse. Il messo Fiorentino, dopo
aver bussato alla porta, non fu ammesso alla presenza del Poeta
(evidentemente per incomprensione dovuta alla lingua), che stava
scrivendo, e gli fu detto di ritornare, quando si rifiutò
di laciare "la carta" a chi gli aveva aperto la porta.
"Devo vedere il signor Odèn (sic)", insisteva
il Fiorentino e, pur timido, forte del suo buon diritto, minacciava
sanzioni varie. Gli fu chiusa la porta in faccia e trattato come
un qualsiasi disturbatore. Ma non si arrese e si avventò
sul battente di ferro. I colpi erano così forti che destarono
l'attenzione di tutto il vicinato. "Devo parlare con il signor
Odèn", continuava in un intercalare ossessivo. Dopo
buoni dieci minuti di quel chiasso, è facile dedurre che
il Poeta si era ormai distratto dal suo lavoro, che doveva essere
di particolare impegno, arguendo dalla sua inconsueta reazione.
Auden aprì lui stesso la porta e, scuro in viso, domandò
cosa volesse il messo. Fiorentino a stento celando il suo trionfo,
gli consegnò la carta rosa e Auden, come l'ebbe nelle mani,
la strappò con rabbia e ne buttò i pezzi sulla strada;
poi chiuse la porta e si ritirò in casa. Dopo un'ora ero
già da lui. Cercai di fargli comprendere che il foglio
che lui aveva strappato era evidentemente l'ultimo di una lunga
serie che doveva già aver ricevuto nei mesi passati, per
cui, allo stato, non si poteva più fare reclamo. Questo
ragionamento, per me della materia, elementare, non sembrava far
breccia nella mente, pur sconfinata del Poeta, che accusava di
bizantinismo la legge italiana; ed io di rimando, per sdrammatizzare,
risposi che proprio lui non doveva far scivolare la parola "bizantinismo"
allorché mezzo mondo intellettuale si domandava del significato
recondito di molti suoi versi! Questa battuta lo fece sorridere
e mi invitò al party che aveva già organizzato per
la sera, anche al fine di concludere il discorso sulle tasse.
Ahimè! Durante la festa, quasi tutti gli invitati si sentirono
in diritto di dire la loro, e tutti per sostenere (spesso a sproposito)
il buon diritto del Poeta a non pagare; facendo fronte unico contro
di me, come se io fossi stato il responsabile di tutto! Mi salvò
Auden, chiudendo la discussione col dire che avrebbe pagato all'indomani:
"in fondo sono poche migliaia di lire!"
Il
secondo incarico professionale che ebbi da Auden fu quello di
affrontare (è il caso) il sig. Monte, per l'esattezza Giulio,
di "Addio al Alezzogiorno", padrone di casa dove
aveva vissuto negli ultimi anni a Forio d'Ischia. Il Monte era
assistito dall'avv. Franchino d'Ascia, esattore di Forio, lo stesso
che gli aveva inviato il foglietto rosa di morosità. In
verità entrambi buoni diavoli; il loro torto era forse
quello di avere un modo di fare da apparire eccessivamente petulanti.
I
termini della vertenza erano semplici: Auden avrebbe lasciato
la casa nell'estate del 1958 e cioè prima della scadenza
del contratto, per cui Giulio Monte, il proprietario, voleva essere
pagato anche per il periodo in cui il Poeta non avrebbe usufruito
dell'appartamento. Già da tempo i rapporti tra i due non
erano dei più cordiali, soprattutto perché il Monte
per ogni sciocchezza andava dall'inquilino a reclamare, interrompendo
il suo lavoro. Auden si tratteneva in casa solo per scrivere;
quando voleva riposarsi o distrarsi andava al "Bar Maria"
o a risolvere cruciverba oppure a conversare con gli amici, bevendo
un bicchiere di vino. Il Monte reputava invece che era più
corretto andare a casa per parlargli anziché avvicinarlo
quando era al bar.
L'arengo
era la sala da pranzo del Poeta; seduti di fronte al lato lungo
di un tavolo di legno rettangolare: il Monte con il suo avvocato
da un lato ed il celebre inquilino ed io dall'altro. Le conversazioni,
che durarono per diverse sedute, cominciavano poco dopo le undici
del mattino, quando Auden aveva finito di scrivere. Il Poeta era
lì presente e non prendeva parte alla conversazione, spesso
accesa e gestuata, che avveniva fra gli altri tre protagonisti.
Il suo volto così solcato non accennava mai né ad
un sorriso, né ad un cenno di approvazione o negazione.
Era tra lo affascinato e stupito a quella che doveva apparire
a lui come una scena teatrale, in bilico tra il dramma e la commedia,
ma che certo intimamente lo divertiva. Anche se di tanto in tanto
doveva pur pensare che la conclusione di quel fiume di bizantinismi
verbali avrebbe comunque investito le sue finanze, mai gestite
con eccessiva liberalità! Sono convinto che quella esperienza
nuova lo divertiva. Forse è lì la spiegazione della
sua gratitudine perfino al sig. Monte di "Addio al Mezzogiorno",
poesia scritta a circa un mese da quegli avvenimenti e probabilmente
in parte maturata durante i suoi lunghi silenzi da spettatore
disincantato ad assistere la nostra naturale commedia.
Come
sempre finiscono queste cose, la vertenza tra Giulio Monte e W.
H. Auden finì con una transazione.
Lo
rividi alcuni giorni dopo quando andai a salutarlo per la partenza:
dovevo ritirare le chiavi di casa per consegnarle poi ad una famiglia
di suoi amici che si sarebbero trattenuti una decina di giorni
(con il consenso concordato del proprietario) e poi riconsegnarle
definitivamente al Monte.
Era
verso mezzogiorno, aveva già le valigie pronte, solo una
era semichiusa per introdurvi le ultime cose. Lo salutai un po'
commosso, sentimento che si intensificò, commisto ad imbarazzo,
quando stringendomi la mano, mi disse "grazie!"
Mentre
stavo per aprire la porta mi richiamò. Mi voltai e vidi
che dalla valigia semichiusa aveva tirato fuori il mio libretto
di poesie con la sua prefazione e, tenendolo in mano, agitava
il braccio in segno di saluto. Appena pubblicato, mesi prima,
gli avevo fatto dono della prima copia e (ritenendo che lui si
accingeva a lasciare Forio soprattutto perché infastidito
dal comportamento dell'Amministrazione comunale dell'epoca nei
suoi confronti e di alcune persone del posto) gli avevo scritto
una dedica con quei suoi versi che maggiormente mi avevano affascinato:
"ama il tuo cattivo vicino con il tuo cattivo cuore, ma ama
il tuo buon vicino con il tuo buon cuore".
Nel
chiudere la porta pensa - e non credo che sbagliassi - che col
salutarmi agitando con la mano il mio libretto di poesie, volesse
alludere al significato della dedica. Non riuscii a dire altra
parola. A passo svelto mi allontanai.
Il
messaggio continua
Cadrebbe
in errore chi facesse coincidere il messaggio poetico-sociale-esistenziale
di Auden con la sua biografia, esaurendolo il 29 settembre 1973
a kirchstetten in Austria.
Auden
è uno "storiografo sui generis" che ha registrato
il suo tempo (il nostro) in immagini poetiche ed in visioni universali;
ne ha scolpito e rispecchiato le articolazioni e le incidenze
dei pilastri fondamentali e fino a quando questi pilastri (mass
media, religione, dittatura, democrazia, atomica, ecc...) rimarranno
i cardini delle società future, il suo messaggio sarà
sempre "attuale". La sua opera di "poeta-storiografo-veggente"
è ancora chiusa in parte sotto chiave ed ogni epoca futura
ne afferrerà quella porzione allora più facilmente
riscontrabile.
La
pleiade dei suoi critici ha affermato che il capolavoro che ci
si aspettava da Auden si è fatto attendere invano. Ma il
suo "capolavoro" sta proprio nell'aver lanciato, con
ironia ed angoscia, un veemente messaggio di poesia che rispecchia
non solo l'uomo-soggetto e la società in cui il poeta è
vissuto (con valore artistico ed estetico incontestabile), ma
soprattutto un Futuro molto lontano prevedibilmente dominato dagli
stessi pilastri di oggi.
Come
non pensare a questi concetti quando si legge in The Dyer's
Hand "quello che i mass media offrono non è
arte popolare, ma divertimento fatto per essere consumato come
cibo, dimenticato e sostituito da una nuova pietanza?"
Chi ci viene a negare che le "dolorose" realtà
come l'atomica, la violenza e la droga non saranno più
attuali fra un secolo e fra due? E che il rapporto fra gli uomini
per quel tempo si sarà modificato? "Legati a noi
stessi per la vita, dobbiamo apprendere come sopportarci a vicenda"
(9).
Mai
Auden perde di vista i suoi obiettivi, sempre lucidi e di profonde
significazioni; anche quando si riposa ed ha bisogno di frapporre
un muro di benvenuta nebbia che lo separi, con la sua serena e
rassegnata stanchezza, dall'arroganza della società dei
consumi: "Nessun sole d'estate / smantellerà mai
l'ombra globale / gettata dai Quotidiani, / vomitanti in sciatta
prosa / i fatti di grettezza e di violenza / che siamo troppo
ottusi per prevenire: / la nostra terra è un luogo triste,
ma / per questo speciale interim, / così riposante, eppure
così festivo, / Grazie, Grazie, Grazie, Nebbia"
(10).
Thank
You, Thank You, Thank You, Mr. Auden
1) "You shall love your crooked neighbour
/ with your crooked hearth. / You shall love your straight neighbour
/ with your straight hearth". Così come ce li
diceva Auden (letteralmente ossessionato dalle nostre petulanti
richieste di spiegazioni), se i ricordi e gli appunti di allora,
dopo circa trent'anni, non hanno subito anch' essi l'usura del
tempo.
2) "Lettera per il nuovo anno", traduzione di Giovanni
Fattorini. In Opere poetiche di W. H. Auden, vol. I, Milano,
Lerici Editore. 1966; alle pagg. 244/245.
3) W. H. Auden, Il jolly nel mazzo, traduzione di Gabriella
Fiori Andreini, Milano, Garzanti, 1972; alle pagg. 177/178.
4) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Carlo Izzo, Parma,
Guanda, 1961; alle pagg. 38/39.
5) W. H. Auden, Città senza mura, traduzione di
Aurora Ciliberti, Milano, A.Mondadori,1981; allepagg. 188/189
6) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Carlo Izzo, Parma,
Guanda, 1961; alle pagg. 200
7) W. H. Auden, Poesie, traduzione di Aurora Ciliberti,
Milano, Oscar Mondadori, 1981 ; alle pagg. 60/61.
8) N. d'Ambra, Nulla vogliamo dal sogno, Milano, Intelisano
editore, 1957; alle pagg. 5/6.
9) W. H. Auden, Grazie nebbia!, traduzione di Aurora Ciliberti,
Guanda, 1977; alle pagg. 58/59.
10) Wystan Hugh Auden, Grazie nebbia!, traduzione di Aurora
Ciliberti, Guanda, 1977; alle pagg. 28/29.
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